giovedì 31 marzo 2016

Giacomo Leopardi


Buonasera, benvenuti e bentrovati carissimi lettori ed appassionati di letteratura e cultura generale.
Ultimo giorno del classico "pazzo" mese di Marzo, mese durante il quale, come spesso succede, le condizioni climatiche si alternato misteriosamente tra di loro, passando da giornate di temperature abbastanza elevate, sole e magari un po di caldo, alle piogge e cieli cupi.
In questo mese abbiamo attraversato la molto sentita Settimana Santa, come nel post precedente abbiamo accennato, la Santa Pasqua e mettiamoci in mezzo anche la Pasquetta delle scampagnate e dei week-end fuori porta.
Questa sera però voglio parlarvi di una poesie che mi è stata raccomandata tante e tante volte, fra l'altro, chiedo scusa a tutti voi, carissimi e tantissimi lettori di questo blog, se purtroppo non riesco a rispondere velocemente alle vostre tantissime e-mail, ne approfitto per ringraziarvi per l'affetto e la passione che da molti anni a questa parte mi trasmettete, questa poesia è tutta per voi, vi auguro buona lettura!

La donzelletta vien dalla campagna,
In sul calar del sole,
Col suo fascio dell’erba; e reca in mano
Un mazzolin di rose e di viole,
Onde, siccome suole,
Ornare ella si appresta
Dimani, al dì di festa, il petto e il crine.
Siede con le vicine
Su la scala a filar la vecchierella
Incontro là dove si perde il giorno;
E novellando vien del suo buon tempo,
Quando ai dì della festa ella si ornava,
Ed ancor sana e snella
Solea danzar la sera intra di quei
Ch’ebbe compagni dell’età più bella.
Già tutta l’aria imbruna,
Torna azzurro il sereno, e tornan l’ombre
Giù da’ colli e da’ tetti,
Al biancheggiar della recente luna.
Or la squilla dà segno
Della festa che viene;
Ed a quel suon diresti
Che il cor si riconforta.
I fanciulli gridando
Su la piazzuola in frotta,
E qua e là saltando,
Fanno un lieto romore:
E intanto riede alla sua parca mensa,
Fischiando, il zappatore,
E seco pensa al dì del suo riposo.
Poi quando intorno è spenta ogni altra face,
E tutto l’altro,
Odi il martel picchiare, odi la sega
Del legnaiuol, che veglia
Nella chiusa bottega alla lucerna,
E s’affretta, e s’adopra
Di Fornir l’opra anzi il chiarir dell’alba.
Questo di sette è il più gradito giorno,
Pien di speme e di gioia:
Diman tristezza e noia
Recheran l’ore, ed al travaglio usato
Ciascuno in suo pensier farà ritorno.
Garzoncello scherzoso,
Cotesta età fiorita
È come un giorno d’allegrezza pieno,
Giorno chiaro, sereno,
Che percorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio: stato soave,
Stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vò; ma la tua festa
Ch’anco tardi a venir non ti sia grave.

di Giacomo Leopardi

Grazie ancora per l'affetto e l'amore per questo blog che mi trasmettete, non mi resta che augurarvi buona navigazione, buon proseguimento di serata e buona lettura.

domenica 27 marzo 2016

Buona Pasqua!


Buonasera benvenuti e bentrovati cari lettori ed appassionati di letteratura.

Dopo la Settimana Santa appena trascorsa proprio ieri, siamo finalmente giunti finalmente alla Santa Pasqua.
In molte città del mondo la settimana Santa, prima di Pasqua, è sentita in molte città del mondo.
Come le grandi manifestazioni per esempio che vengono svolte in Spagna a Malaga dove le immagine sacre, localmente denominate "troni" o comunemente tradotto in italiano "vare" vengono fatte sfilare per le vie della città.
Altra manifestazione molto importante durante la Settimana Santa, conosciuta in tutto il mondo, è la Processione dei Misteri di Trapani,in Sicilia.
Grandissima manifestazione sentita da tutta la città che viene svolta il Venerdì Santo, sono ben 20 i misteri che escono dalla Chiesa delle Anime del Purgatorio, situata nel centro storico trapanese, dove alle ore 14:00 del Venerdì Santo iniziano pian piano a fare il loro ingresso per le vie della città.
I Misteri, fondamentalmente costruiti al loro interno di sughero ed invece all'esterno di colla e gesso, vengono portati per tutto il giorno e tutta la notte, fino al loro rientro in Chiesa, a spalla dai "portatori".
Grande ed inteso sforzo ovviamente perchè il peso di ogni Mistero è veramente elevato.
La Processione dei Misteri di Trapani, si conclude alle 14:00 del giorno successivo al Venerdì Santo, con il rientro dell'ultimo gruppo, quello della Madonna Addolorata.
La classica "annacata" contraddistingue questa movimento ondulatorio che i "portatori" danno al Mistero, rende caratteristica questa processione molto lunga, intesa, emozionante e tanto sentita da tutta la città.
Questo è un piccolo sunto di quella che è la Pasqua per alcune città nel mondo, ovviamente il nostro blog da spazio ad interventi e nuove conoscenza oltre come sapete alle poesie ed alla letteratura.
Questa sera, dato che ci troviamo nella Santa Pasqua, volevo farvi leggere questa poesia molto emozionante e profonda, spero sia di vostro gradimento.

Buona lettura!


Non aspettare di finire l’università,

di innamorarti,
di trovare lavoro,
di sposarti,
di avere figli,
di vederli sistemati,
di perdere quei dieci chili,
che arrivi il venerdì sera o la domenica mattina,
la primavera,
l’estate,
l’autunno o l’inverno.

Non c’è momento migliore di questo per essere felice.
La felicità è un percorso, non una destinazione. 
Lavora come se non avessi bisogno di denaro,
ama come se non ti avessero mai ferito 
e balla, come se non ti vedesse nessuno.
Ricordati che la pelle avvizzisce,
i capelli diventano bianchi e i giorni diventano anni.
Ma l’importante non cambia: 
la tua forza e la tua convinzione non hanno età.
Il tuo spirito è il piumino che tira via qualsiasi ragnatela.
Dietro ogni traguardo c’è una nuova partenza. 
Dietro ogni risultato c’è un’altra sfida.
Finché sei vivo, sentiti vivo.

Vai avanti, anche quando tutti si aspettano che lasci perdere.


di Madre Teresa di Calcutta 

Spero che sia stato di vostro gradimento questa piccolo argomento trattato ed ovviamente la poesie che molti di voi mi hanno richiesto in questa Settimana Santa, vi auguro ancora una buona e serena Pasqua, da trascorrere felicemente con le persone che più volete bene.

sabato 19 marzo 2016

Consalvo


Buonasera, benvenuti e bentrovati carissimi lettori ed appassionati di letteratura!
Come avete trascorso questa penultima settimana di Marzo?
Siamo giunti finalmente al fine settimana, giornata di relax per molti e magari per altri di lavoro e di impegni da sbrigare anche il sabato e la domenica, eh si, succede.
Ovunque voi vi troviate, sapete che avete sempre la possibilità di vivere qualche minuto di relax e di tranquillità grazie a questo blog.
Questa poesia la dedico a tutti voi, che giorno dopo giorno, affollate veramente in tanti questo blog e ci scrivete veramente tantissime e-mail, GRAZIE.

Buona lettura.


Resso alla fin di sua dimora in terra,
Giacea Consalvo; disdegnoso un tempo
Del suo destino; or già non più, che a mezzo
Il quinto lustro, gli pendea sul capo
Il sospirato obblio. Qual da gran tempo,
Così giacea nel funeral suo giorno
Dai più diletti amici abbandonato:
Ch'amico in terra al lungo andar nessuno
Resta a colui che della terra è schivo.
Pur gli era al fianco, da pietà condotta
A consolare il suo deserto stato,
Quella che sola e sempre eragli a mente,
Per divina beltà famosa Elvira;
Conscia del suo poter, conscia che un guardo
Suo lieto, un detto d'alcun dolce asperso,
Ben mille volte ripetuto e mille
Nel costante pensier, sostegno e cibo
Esser solea dell'infelice amante:
Benchè nulla d'amor parola udita
Avess'ella da lui. Sempre in quell'alma
Era del gran desio stato più forte
Un sovrano timor. Così l'avea
Fatto schiavo e fanciullo il troppo amore.
Ma ruppe alfin la morte il nodo antico
Alla sua lingua. Poichè certi i segni
Sentendo di quel dì che l'uom discioglie,
Lei, già mossa a partir, presa per mano,
E quella man bianchissima stringendo,
Disse: tu parti, e l'ora omai ti sforza:
Elvira, addio. Non ti vedrò, ch'io creda,
Un'altra volta. Or dunque addio. Ti rendo
Qual maggior grazia mai delle tue cure
Dar possa il labbro mio. Premio daratti
Chi può, se premio ai pii dal ciel si rende.
Impallidia la bella, e il petto anelo
Udendo le si fea: che sempre stringe
All'uomo il cor dogliosamente, ancora
Ch'estranio sia, chi si diparte e dice,
Addio per sempre. E contraddir voleva,
Dissimulando l'appressar del fato,
Al moribondo. Ma il suo dir prevenne
Quegli, e soggiunse: desiata, e molto,
Come sai, ripregata a me discende,
Non temuta, la morte; e lieto apparmi
Questo feral mio dì. Pesami, è vero,
Che te perdo per sempre. Oimè per sempre
Parto da te. Mi si divide il core
In questo dir. Più non vedrò quegli occhi,
Nè la tua voce udrò! Dimmi: ma pria
Di lasciarmi in eterno, Elvira, un bacio


Non vorrai tu donarmi? un bacio solo
In tutto il viver mio? Grazia ch'ei chiegga
Non si nega a chi muor. Nè già vantarmi
Potrò del dono, io semispento, a cui
Straniera man le labbra oggi fra poco
Eternamente chiuderà. Ciò detto
Con un sospiro, all'adorata destra
Le fredde labbra supplicando affisse.
Stette sospesa e pensierosa in atto
La bellissima donna; e fiso il guardo,
Di mille vezzi sfavillante, in quello
Tenea dell'infelice, ove l'estrema
Lacrima rilucea. Nè dielle il core
Di sprezzar la dimanda, e il mesto addio
Rinacerbir col niego; anzi la vinse
Misericordia dei ben noti ardori.
E quel volto celeste, e quella bocca,
Già tanto desiata, e per molt'anni
Argomento di sogno e di sospiro,
Dolcemente appressando al volto afflitto
E scolorato dal mortale affanno,
Più baci e più, tutta benigna e in vista
D'alta pietà, su le convulse labbra
Del trepido, rapito amante impresse.
Che divenisti allor? quali appariro
Vita, morte, sventura agli occhi tuoi,
Fuggitivo Consalvo? Egli la mano,
Ch'ancor tenea, della diletta Elvira
Postasi al cor, che gli ultimi battea
Palpiti della morte e dell'amore,
Oh, disse, Elvira, Elvira mia! ben sono
In su la terra ancor; ben quelle labbra
Fur le tue labbra, e la tua mano io stringo!
Ahi vision d'estinto, o sogno, o cosa
Incredibil mi par. Deh quanto, Elvira,
Quanto debbo alla morte! Ascoso innanzi
Non ti fu l'amor mio per alcun tempo;
Non a te, non altrui; che non si cela
Vero amore alla terra. Assai palese
Agli atti, al volto sbigottito, agli occhi,
Ti fu: ma non ai detti. Ancora e sempre
Muto sarebbe l'infinito affetto
Che governa il cor mio, se non l'avesse
Fatto ardito il morir. Morrò contento
Del mio destino omai, nè più mi dolgo
Ch'aprii le luci al dì. Non vissi indarno,
Poscia che quella bocca alla mia bocca
Premer fu dato. Anzi felice estimo
La sorte mia. Due cose belle ha il mondo:


Amore e morte. All'una il ciel mi guida
In sul fior dell'età; nell'altro, assai
Fortunato mi tengo. Ah, se una volta,
Solo una volta il lungo amor quieto
E pago avessi tu, fora la terra
Fatta quindi per sempre un paradiso
Ai cangiati occhi miei. Fin la vecchiezza,
L'abborrita vecchiezza, avrei sofferto
Con riposato cor: che a sostentarla
Bastato sempre il rimembrar sarebbe
D'un solo istante, e il dir: felice io fui
Sovra tutti i felici. Ahi, ma cotanto
Esser beato non consente il cielo
A natura terrena. Amar tant'oltre
Non è dato con gioia. E ben per patto
In poter del carnefice ai flagelli,
Alle ruote, alle faci ito volando
Sarei dalle tue braccia; e ben disceso
Nel paventato sempiterno scempio.
O Elvira, Elvira, oh lui felice, oh sovra
Gl'immortali beato, a cui tu schiuda
Il sorriso d'amor! felice appresso
Chi per te sparga con la vita il sangue!
Lice, lice al mortal, non è già sogno
Come stimai gran tempo, ahi lice in terra
Provar felicità. Ciò seppi il giorno
Che fiso io ti mirai. Ben per mia morte
Questo m'accadde. E non però quel giorno
Con certo cor giammai, fra tante ambasce,
Quel fiero giorno biasimar sostenni.
Or tu vivi beata, e il mondo abbella,
Elvira mia, col tuo sembiante. Alcuno
Non l'amerà quant'io l'amai. Non nasce
Un altrettale amor. Quanto, deh quanto
Dal misero Consalvo in sì gran tempo
Chiamata fosti, e lamentata, e pianta!
Come al nome d'Elvira, in cor gelando.
Impallidir; come tremar son uso
All'amaro calcar della tua soglia,
A quella voce angelica, all'aspetto
Di quella fronte, io ch'al morir non tremo!
Ma la lena e la vita or vengon meno
Agli accenti d'amor. Passato è il tempo,
Nè questo dì rimemorar m'è dato.
Elvira, addio. Con la vital favilla
La tua diletta immagine si parte
Dal mio cor finalmente. Addio. Se grave
Non ti fu quest'affetto, al mio feretro
Dimani all'annottar manda un sospiro.


Tacque: nè molto andò, che a lui col suono
Mancò lo spirto; e innanzi sera il primo
Suo dì felice gli fuggia dal guardo.


di Giacomo Leopardi

Grazie mille per la vostra cortese attenzione, non mi resta che augurarvi un ottimo fine settimana e buon proseguimento di serata.


mercoledì 16 marzo 2016

Bruto minore


Buonasera, benvenuti e bentrovati cari lettori ed appassionati di letteratura.
Questa sera posterò una poesia che mi avete richiesto veramente in tanti tramite e-mail, sicuramente è molto apprezzata, ma bisogna leggerla con attenzione per capire le sfumature racchiuse in essa.

Buona lettura.

Poi che divelta, nella tracia polve
Giacque ruina immensa 
L'italica virtute, onde alle valli 
D'Esperia verde, e al tiberino lido,
Il calpestio de' barbari cavalli
Prepara il fato, e dalle selve ignude 
Cui l'Orsa algida preme, 
A spezzar le romane inclite mura 
Chiama i gotici brandi; 
Sudato, e molle di fraterno sangue,
Bruto per l'atra notte in erma sede, 
Fermo già di morir, gl'inesorandi 
Numi e l'averno accusa, 
E di feroci note 
Invan la sonnolenta aura percote.
Stolta virtù, le cave nebbie, i campi 
Dell'inquiete larve 
Son le tue scole, e ti si volge a tergo 
Il pentimento. A voi, marmorei numi, 
(Se numi avete in Flegetonte albergo
O su le nubi) a voi ludibrio e scherno 
È la prole infelice 
A cui templi chiedeste, e frodolenta 
Legge al mortale insulta. 
Dunque tanto i celesti odii commove
La terrena pietà? dunque degli empi 
Siedi, Giove, a tutela? e quando esulta
Per l'aere il nembo, e quando 
Il tuon rapido spingi, 
Ne' giusti e pii la sacra fiamma stringi?
Preme il destino invitto e la ferrata 
Necessità gl'infermi 
Schiavi di morte: e se a cessar non vale 
Gli oltraggi lor, de' necessarii danni 
Si consola il plebeo. Men duro è il male
Che riparo non ha? dolor non sente 
Chi di speranza è nudo? 
Guerra mortale, eterna, o fato indegno, 
Teco il prode guerreggia, 
Di cedere inesperto; e la tiranna
Tua destra, allor che vincitrice il grava, 
Indomito scrollando si pompeggia,
Quando nell'alto lato
L'amaro ferro intride, 
E maligno alle nere ombre sorride.
Spiace agli Dei chi violento irrompe 
Nel Tartaro. Non fora 
Tanto valor ne' molli eterni petti. 
Forse i travagli nostri, e forse il cielo 
I casi acerbi e gl'infelici affetti
Giocondo agli ozi suoi spettacol pose? 
Non fra sciagure e colpe, 
Ma libera ne' boschi e pura etade 
Natura a noi prescrisse, 
Reina un tempo e Diva. Or poi ch'a terra
Sparse i regni beati empio costume, 
E il viver macro ad altre leggi addisse;
Quando gl'infausti giorni 
Virile alma ricusa, 
Riede natura, e il non suo dardo accusa?
i colpa ignare e de' lor proprii danni 
e fortunate belve 
erena adduce al non previsto passo 
La tarda età. Ma se spezzar la fronte 
Ne' rudi tronchi, o da montano sasso
Dare al vento precipiti le membra 
Lor suadesse affanno; 
Al misero desio nulla contesa 
Legge arcana farebbe 
O tenebroso ingegno. A voi, fra quante
Stirpi il cielo avvivò, soli fra tutte, 
Figli di Prometeo, la vita increbbe;
A voi le morte ripe, 
Se il fato ignavo pende, 
Soli, o miseri, a voi Giove contende.
E tu dal mar cui nostro sangue irriga, 
Candida luna, sorgi, 
E l'inquieta notte e la funesta 
All'ausonio valor campagna esplori.
Cognati petti il vincitor calpesta,
Fremono i poggi, dalle somme vette 
Roma antica ruina; 
Tu sì placida sei? Tu la nascente 
Lavinia prole, e gli anni
Lieti vedesti, e i memorandi allori;
E tu su l'alpe l'immutato raggio 
Tacita verserai quando ne' danni 
Del servo italo nome, 
Sotto barbaro piede 
Rintronerà quella solinga sede.
Ecco tra nudi sassi o in verde ramo 
E la fera e l'augello, 
Del consueto obblio gravido il petto, 
L'alta ruina ignora e le mutate 
Sorti del mondo: e come prima il tetto
Rosseggerà del villanello industre, 
Al mattutino canto 
Quel desterà le valli, e per le balze 
Quella l'inferma plebe 
Agiterà delle minori belve.
Oh casi! oh gener vano! abbietta parte 
Siam delle cose; e non le tinte glebe, 
Non gli ululati spechi
Turbò nostra sciagura, 
Nè scolorò le stelle umana cura.
Non io d'Olimpo o di Cocito i sordi 
Regi, o la terra indegna, 
E non la notte moribondo appello; 
Non te, dell'atra morte ultimo raggio, 
Conscia futura età. Sdegnoso avello
Placàr singulti, ornàr parole e doni 
Di vil caterva? In peggio 
Precipitano i tempi; e mal s'affida 
A putridi nepoti 
L'onor d'egregie menti e la suprema
De' miseri vendetta. A me dintorno 
Le penne il bruno augello avido roti;
Prema la fera, e il nembo 
Tratti l'ignota spoglia;
E l'aura il nome e la memoria accoglia.

di Giacomo Leopardi

Grazie mille per la vostra cortese attenzione, vi auguro buon proseguimento di serata e buona permanenza insieme a noi.

lunedì 7 marzo 2016

Canto notturno di un pastore errante dell'Asia


Buon pomeriggio, benvenuti e bentrovati miei cari lettori.
Questo pomeriggio, facciamo un bel salto in avanti, una poesia di grande spessore, ma che ha bisogno di essere letta più volte per essere compresa nel pieno della sua grandezza.

Buona lettura.

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
la vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
move la greggia oltre pel campo, e vede
greggi, fontane ed erbe;
poi stanco si riposa in su la sera:
altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi? dimmi: ove tende
questo vagar mio breve,
il tuo corso immortale?
Vecchierel bianco, infermo,
mezzo vestito e scalzo,
con gravissimo fascio in su le spalle,
per montagna e per valle,
per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
al vento, alla tempesta, e quando avvampa
l'ora, e quando poi gela,
corre via, corre, anela,
varca torrenti e stagni,
cade, risorge, e piú e piú s'affretta,
senza posa o ristoro,
lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
colà dove la via
e dove il tanto affaticar fu vòlto:
abisso orrido, immenso,
ov'ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
è la vita mortale.
Nasce l'uomo a fatica,
ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
per prima cosa; e in sul principio stesso
la madre e il genitore
il prende a consolar dell'esser nato.
Poi che crescendo viene,
l'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
con atti e con parole
studiasi fargli core,
e consolarlo dell'umano stato:
altro ufficio piú grato
non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
perché reggere in vita
chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
è lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
e forse del mio dir poco ti cale.
Pur tu, solinga, eterna peregrina,
che sí pensosa sei, tu forse intendi,
questo viver terreno,
il patir nostro, il sospirar, che sia;
che sia questo morir, questo supremo
scolorar del sembiante,
e perir dalla terra, e venir meno
ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
il perché delle cose, e vedi il frutto
del mattin, della sera,
del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
rida la primavera,
a chi giovi l'ardore, e che procacci
il verno co' suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
che son celate al semplice pastore.
spesso quand'io ti miro
star cosí muta in sul deserto piano,
che, in suo giro lontano, al ciel confina;
ovver con la mia greggia
seguirmi viaggiando a mano a mano;
e quando miro in cielo arder le stelle;
dico fra me pensando:
a che tante facelle?
che fa l'aria infinita, e quel profondo
infinito seren? che vuol dir questa
solitudine immensa? ed io che sono?
Cosí meco ragiono: e della stanza
smisurata e superba,
e dell'innumerabile famiglia;
poi di tanto adoprar, di tanti moti
d'ogni celeste, ogni terrena cosa,
girando senza posa,
per tornar sempre là donde son mosse;
uso alcuno, alcun frutto
indovinar non so. Ma tu per certo,
giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
che degli eterni giri,
che dell'esser mio frale,
qualche bene o contento
avrà fors'altri; a me la vita è male.
O greggia mia che posi, oh te beata,
che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d'affanno
quasi libera vai;
ch'ogni stento, ogni danno,
ogni estremo timor subito scordi;
ma piú perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,
tu se' queta e contenta;
e gran parte dell'anno
senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
e un fastidio m'ingombra
la mente, ed uno spron quasi mi punge
sí che, sedendo, piú che mai son lunge
da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
e non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
o greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
se tu parlar sapessi, io chiederei:
- Dimmi: perché giacendo
a bell'agio, ozioso,
s'appaga ogni animale;
me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale? -
Forse s'avess'io l'ale
da volar su le nubi,
e noverar le stelle ad una ad una,
o come il tuono errar di giogo in giogo,
piú felice sarei, dolce mia greggia,
piú felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dí natale.

di Giacomo Leopardi 

Spero che la poesia sia stata di vostro gradimento ed interesse, non mi resta che augurarvi buon proseguimento di giornata, buona lettura e buona permanenza insieme a noi.

mercoledì 2 marzo 2016

Ultimo canto di Saffo


Buonanotte e bentrovati cari lettori ed appassionati di letteratura.
Come avete capito dall'ora, questa notte non riesco a prendere sonno, quale miglior modo per cercare di rilassarci leggendo qualche poesia?
Durante tutta questa giornata ho sentito parlare di questo grande autore per una cosa o per l'altra, resterò sempre nel mio cuore.
Questa meravigliosa poesia, la dedico a tutti voi.

Placida notte, e verecondo raggio
Della cadente luna; e tu che spunti
Fra la tacita selva in su la rupe,
Nunzio del giorno; oh dilettose e care
Mentre ignote mi fur l'erinni e il fato,
Sembianze agli occhi miei; già non arride
Spettacol molle ai disperati affetti.
Noi l'insueto allor gaudio ravviva
Quando per l'etra liquido si volve
E per li campi trepidanti il flutto
Polveroso de' Noti, e quando il carro,
Grave carro di Giove a noi sul capo,
Tonando, il tenebroso aere divide.
Noi per le balze e le profonde valli
Natar giova tra' nembi, e noi la vasta
Fuga de' greggi sbigottiti, o d'alto
Fiume alla dubbia sponda
Il suono e la vittrice ira dell'onda.
Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella
Sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta
Infinita beltà parte nessuna
Alla misera Saffo i numi e l'empia
Sorte non fenno. A' tuoi superbi regni
Vile, o natura, e grave ospite addetta,
E dispregiata amante, alle vezzose
Tue forme il core e le pupille invano
Supplichevole intendo. A me non ride
L'aprico margo, e dall'eterea porta
Il mattutino albor; me non il canto
De' colorati augelli, e non de' faggi
Il murmure saluta: e dove all'ombra
Degl'inchinati salici dispiega
Candido rivo il puro seno, al mio
Lubrico piè le flessuose linfe
Disdegnando sottragge,
E preme in fuga l'odorate spiagge.
Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso
Macchiommi anzi il natale, onde sì torvo
Il ciel mi fosse e di fortuna il volto?
In che peccai bambina, allor che ignara
Di misfatto è la vita, onde poi scemo
Di giovanezza, e disfiorato, al fuso
Dell'indomita Parca si volvesse
Il ferrigno mio stame? Incaute voci
Spande il tuo labbro: i destinati eventi
Move arcano consiglio. Arcano è tutto,
Fuor che il nostro dolor. Negletta prole
Nascemmo al pianto, e la ragione in grembo
De' celesti si posa. Oh cure, oh speme
De' più verd'anni! Alle sembianze il Padre,
Alle amene sembianze eterno regno
Diè nelle genti; e per virili imprese,
Per dotta lira o canto,
Virtù non luce in disadorno ammanto.
Morremo. Il velo indegno a terra sparto
Rifuggirà l'ignudo animo a Dite,
E il crudo fallo emenderà del cieco
Dispensator de' casi. E tu cui lungo
Amore indarno, e lunga fede, e vano
D'implacato desio furor mi strinse,
Vivi felice, se felice in terra
Visse nato mortal. Me non asperse
Del soave licor del doglio avaro
Giove, poi che perir gl'inganni e il sogno
Della mia fanciullezza. Ogni più lieto
Giorno di nostra età primo s'invola.
Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l'ombra
Della gelida morte. Ecco di tante
Sperate palme e dilettosi errori,
Il Tartaro m'avanza; e il prode ingegno
Han la tenaria Diva,
E l'atra notte, e la silente riva.

di Giacomo Leopardi

Grazie mille come sempre per la vostra cortese attenzione, vi auguro buona navigazione, buon proseguimento e sogni d'oro.